Qualche giorno fa ho ricevuto il primo messaggio da Carlo, un lettore del blog, che mi chiedeva un consiglio.
A me...?!? A me che vivo con tre donne a cui non posso osare di consigliare neppure il gusto del succo di frutta! Questa solidarietà di genere e questo momento di esaltazione mi hanno portato a una simpatia naturale e immediata. Carlo mi ha inviato un articolo che ha scritto qualche giorno fa e che é stato pubblicato su "La Stampa" a fine novembre 2011.
Ho chiesto a Carlo la possibilità di condividere con il blog il suo scritto e Carlo mi ha inviato con grande entusiasmo il suo ok e la versione cartacea dell'articolo. Ecco la loro storia. Grazie Carlo.
"Tutto comincia dalla frase che vedete qui accanto. E’ rimasta lì appesa in silenzio dietro ai vetri di una porta per un anno, prima che mi accorgessi di lei. Poi, un giorno, mi fermo, la vedo e provo a leggerla: è molto difficile, ma riesco. Una cosa mi colpisce, in particolare. Questa scritta non è messa lì per chi, come me, passa nel corridoio, ma per chi esce dalla stanza: i medici, solo loro quando escono la leggono-aldritto e la leggono così: «Quando curi una persona puoi vincere o perdere, quando ti prendi cura di una persona puoi solo vincere».
Stesso periodo, altra scena, notte, dormiveglia, si apre la porta con delicatezza, Lei entra, passi leggeri, molto leggeri, si avvicina a Lui, si china su di Lui, muove le mani, con sapienza, Lui si agita un poco, Lei gli parla con dolcezza, lo tranquillizza, si alza, e come è entrata, altrettanto silenziosamente se ne esce. Un angelo .. E’ solo un sogno, torno a dormire.
Mesi dopo, giorno, sempre nella stessa stanza, è l’ora della medicazione, Lei, sicurissima, lavora e muove le mani come se non fossero sue (un po’ come quando la nonna non guardava nel pizzicare gli agnolotti). Lui le parla, le racconta le difficili regole di un gioco di carte, Lei ascolta.
Continuano a parlarsi come se fossero a prendere il tè: in questo momento davanti a me c’è il tubicino del cvc che entra nel suo torace, è il momento più delicato, ad altissimo rischio di infezione (tremo sempre in questo momento quando tocca a me fare la medicazione, come una sensazione di sollevare-un-pocoil-velo che nasconde il pulsare della-vita).
Invece quei due... Come se niente fosse. Poi Lei, chiudendo le garze, dice «Cavolo, fossero tutti come te, così allegri e sereni, perché non mi accompagni nelle altre stanze a portare un po’ di buon umore?». Io rimango lì, inebetito e affascinato: in tutti questi mesi non sono mai stato buono a dirgli nulla, ma solo a pensare come fare a togliergli dalla faccia quello sguardo depresso! e invece Lei, in due secondi, non solo gli trasmette una risata, ma rilancia coinvolgendolo in potenziali-ulteriori-risate).
Terzo episodio: cambio di rotta, la malattia come sempre imprevedibile, ha svoltato senza-mettere-la-freccia. I medici ci spiegano come pensano di proseguire. Al termine della spiegazione andiamo tutti da nostro figlio (che da due mesi è chiuso nella stessa stanza) per spiegargli il nuovo percorso.
Attori: nostro figlio, il medico, noi. Il medico gli spiega tutto e come sempre gli chiede se ha domande, Lui risponde di no. E il medico fa silenzio, una lunga pausa di silenzio, in camera non vola una mosca. Solo silenzio, noi molto imbarazzati: ok gli hai detto tutto quello che c’era da dire, chiudiamola qui... Trenta secondi di silenzio totale.
Il medico riprende brevemente a parlare, ripetendosi, senza aggiungere niente di nuovo. Poi ancora silenzio, altri trenta secondi di silenzio: un’eternità. Alla fine dei trenta secondi, nostro figlio fa un cenno e chiede: «Ci sarebbe la possibilità di una pausa a casa?». Era tutto qui, il medico sapeva e aspettava la domanda. Quella domanda.
Il dialogo (dia-logos), questo sconosciuto. Che lezione per noi genitori. Domanda: quante volte parlando con i nostri figli, siamo stati capaci di attendere in silenzio trenta secondi per permettere loro di elaborare e poter così tirarfuori-quello-che-avevano-dentro? nota: per capire quanto sono lunghi trenta secondi di silenzio ho provato a raccontare questo episodio facendo io una pausa di silenzio di 5-6 secondi dopo aver detto «e il medico gli chiede se ha domande». L’interlocutore mi guardava come se fossi diventato scemo (provare per credere).
Siamo al quinto piano dell’Ospedale infantile Regina Margherita di Torino, reparto di Onco-ematologia. Insieme a mia moglie, abbiamo cercato di spiegare con tre brevi esempi come tutto-ilpersonale di un ospedale pubblico si stia prendendo cura di nostro figlio: queste parole, scritte al termine di una tappa di alcuni mesi, di un percorso che prosegue ora in Centro Trapianti, vogliono testimoniare il nostro «grazie» a tutti quelli che stanno dedicando la loro esistenza per la vita di nostro figlio, dei nostri figli.
Medici, infermiere, oss, addetti alle pulizie... Tutti, in ciascuna struttura del reparto (degenza, ambulatorio, DayHospital, Centro-Trapianti), si dedicano ai nostri figli con grande professionalità (e questo, in un centro d’eccellenza, ce lo aspettavamo), ma, ci preme sottolineare, ciascuno sa (è co-sciente) che il suo ruolo è indispensabile per la vita dei nostri figli.
Questo approccio, non arriva dall’alto, non si inventa sui due piedi ne è frutto del caso, ma mostra con chiarezza una strategia che arriva da lontano: più approfondiamo, più scopriamo che da anni tante persone hanno lavorato con entusiasmo professionale per far crescere questo reparto, questo centro che a noi piace chiamare «incubatore-di-vita», dove non si è un numero ma ciascun piccolo paziente è sempre chiamato, per nome e con un sorriso.
Dove tutte/tutti si muovono per cercare il Suo benessere, sempre, giorno-e-notte. Un luogo dove tutti/tutte «danzano» per accompagnarlo verso la vita. Ci piacerebbe infine sottolineare in modo particolare, la presenza delle infermiere giovani che amano, coccolano e curano i nostri figli (neonati o a d o l e s c e n t i , bianchi o neri, ricchi o poveri,), portando nel cuore, dei loro venticinque anni, il desiderio che tutti ce la facciano.
Tornando alla frase iniziale appesa al contrario sulla porta dello studio dei medici: «Quando curi una persona puoi vincere o perdere, quando ti prendi cura di una persona puoi solo vincere».
Questa frase, scritta al contrario, di difficile lettura per noi che veniamo dall’esterno, sembra quasi dirci che è volutamente incomprensibile per chi la legge-da-fuori: per accorgersene e comprenderla ci vuole tempo. O forse soltanto un sorriso."
*L’autore di questo articolo è Carlo Paccagnini, il padre di un bambino ricoverato al Regina Margherita a Torino.
Un grosso in bocca al lupo al piccolo ed ai suoi genitori .
RispondiEliminaDa una prima lettura colpisce e quasi stona leggere di strutture ospedaliere efficienti , certo i problemi ed i disservizi ci sono un poco ovunque ma ancora oggi c'é tanta gente che fa il proprio lavoro con il cuore e con la coscienza . Sento speso dire che un medico od un infermiere per fare bene il suo lavoro deve mantenere un certo distacco dal malato , fortunatamente non tutti la pensano così ed allora ben venga anche un gesto di affetto venuto dal cuore che lascia al malato anche le sua dignità .
É difficile scrivere su questo post, ma credo che Carlo abbia deciso di condividere con noi la loro esperienza proprio per viverla insieme. Parlarne, scambiarsi delle idee, ammirare e apprezzare il lavoro delle persone che ci curano (vi ricordate un vecchio post con un bellissimo spot dell'equipe di un ospedale sardo?), condividere un'esperienza che é assolutamente dura, serve anche per disinnescarla, anche se purtroppo solo in parte. Ma la vita é anche questo e non ci si deve nascondere, chiudere, isolare. E magari si trovano amici nuovi. Propongo allora ai canadesi di raccontare in questo post che regalo vorrebbero mandare dal Canada al bambino di Carlo per Natale. Un regalo vero, non buoni propositi e desideri fuori dal nostro controllo. Insomma cosa regalereste di veramente canadese a Natale a un bambino? Una maglietta dei Montreal Canadiens (anno terribile il 2011)? Gli sci? I pattini da ghiaccio? La slitta? Cosa c'é qui di caratteristico da regalare a un bambino?
RispondiEliminaÉ difficile anche rispondere a questa domanda . Ricordi quando nel testo si parla del dottore che aspetta 30 secondi per vedere se il bambino ha delle domande , ecco , anche in questo caso noi adulti ragioniamo da adulti . É vero che se fai un bel regalo a tuo figlio lui lo apprezza , ma quanto é bello vedere che i bambini giocano con un tappo di bottiglia , quanto é bello vedere la loro ingenuità e spontaneità nel ritagliare un foglio di carta tutto piegato per poi ottenere delle figure tagliate in un foglio bianco , quanto é bello vedere il loro sorriso quando ti implorano di comprargli una pallina da 1 dollaro perché é quello che desiderano e niente altro . Come é bello che tua figlia desideri un cerchietto per i capelli da 1 dollaro o il kit per fare i braccialetti .
RispondiEliminaPotrei andare avanti con altri esempi , ma di certo sai bene di cosa parlo .
Quindi come premesso , noi ragioniamo da adulti , ma se provassi a ragionare con la testa di mio figlio piccolo ti direi un libro di Geronimo Stilton , una macchinina di Cars ( perché sicuramente ne trova una che non ha ) gli regalerei dei colori perché possa esprimere la sua fantasia .
Cosa ci sia di caratteristico da regalare in Canada proprio non saprei , direi forse qualcosa legato agli sport invernali , forse una mazza da Hockey con un disco !
Di diverso rispetto all'Italia qui vedo i carrelli con cui si portano i bambini in giro, i pendagli per l'albero di natale con tutti i soggetti immaginabili, elmetti e pattini da ghiaccio, i peluche da riempire, personalizzare e vestire in mille modi diversi, cappelli e magliette NBA, NHL e NFL. forse qui c'e' piu' scelta tra i modellini dei supereroi, starwars, guanti di spiderman, pigiami dei supereroi, caschi da bici particolari. per il resto aggiungo che la lettura del post mi ha ovviamente sconvolto. ne ho tratto un enorme insegnamento e mi fara diventare una persona ed un padre migliore. grazie
RispondiEliminaIo vorrei le cuffie per ascoltare la musica, lo skate board fatto a surf, la mazza da hockey da usare in estate e una maglietta dei canadiens.
RispondiEliminaE 25 anni in meno !
Mia figlia dice: io vorrei l'attrezzatura completa da hockey con la puzza. E ha ragione perché la puzza del borsone da hockey è una vera prelibatezza canadese. La borsa che emana un odore misto tra vomito e merda piazzata nel garage o nel sous sol (basamenti per i mangia fagioli) è il vero simbolo della virilità del maschio canadese a partire dal livello toddler. Buonanotte
RispondiEliminaCiao!
RispondiEliminaIn effetti scrivere su post è difficile se non impossibile.
Trovo che Carlo abbia una forza interiore incredibile. Un abbraccio!
Per il resto io dal Canada vorrei ricevere lo sciroppo d'acero!
Scusate se è qualche giorno che non scrivo ma ho avuto qualche "problemino" sul lavoro, ma in un post così non mela sento di scrivere altro, in confronto sono stupidaggini.
Ciao
Nadia
@Nadia
RispondiEliminacerto che se me lo dicevi te lo portavo :-) !
primo giorno in Italia per le vacanze natalizie , che bello fare colazione con la focaccia calda ! Peccato per lo sciopero della Gazzetta dello Sport !
Un saluto dall'Italia .
Ciao Davide.
@Davide: Ma figurati! Però mi devi promettere che quando veniamo ad aprile mi porti in qualche posticino dove trovo uno sciroppo buonissimo!!!!
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